Nel weekend del 13 e 14 Gennaio le “Mine Vaganti” di Ferzan Opzteck hanno fatto registrare il tutto esaurito al Cineteatro Eduardo De Filippo, per una stagione teatrale, diretta da Pierluigi Iorio, che sta collezionando un successo dietro l’altro.
Era il 2010 quando nelle sale cinematografiche usciva il film “Mine Vaganti”, ottenendo 13 candidature ai David di Donatello e grande favore del pubblico. A quattordici anni di distanza i personaggi sono vivi in mezzo a noi e, grazie alla trasposizione teatrale, diventano ancora più reali e iconici. Ferzan Opzteck sceglie “Mine Vaganti” per il suo primo lavoro teatrale e lo fa, mettendo la storia al centro della scena. La scenografia di Luigi Ferrigno si adatta ai dialoghi, quasi invariati rispetto al film. Lo spettacolo parte come un racconto, narrato da Erik Tonelli, che veste i panni di Tommaso, senza far rimpiangere l’interpretazione di Riccardo Scamarcio. Con un semplice e classico stratagemma letterario, Ferzan Opzteck dà subito ritmo alla narrazione. Tra una tenda che appare e un’ altra che scompare, Tommaso, confida al fratello Antonio di voler dichiarare alla sua tradizionale famiglia la propria omosessualità. A Roma ha un compagno e una vita completamente diversa: non studia Economia, ma Lettere e vuole fare lo scrittore. La notizia non sembra scalfire l’ enigmimatico Antonio, interpretato da Carmine Recano che, con gesti e parole, riesce a rendere la complessità di un personaggio non facile da gestire. Lui, il figlio perfetto, colui che si è caricato di tutte le responsabilità del pastificio, in una cena di famiglia, anticipa il fratello e dichiara a tutti di essere omosessuale e di aver avuto una storia con un dipendente della fabbrica. Francesco Pannofino, padre di questi due figli “diversi” , entrato già brillantemente in scena con battute omofobe, riesce a far cogliere al pubblico anche il lato comico della vicenda e, così, la scena del suo infarto diventa una rappresentazione da riso amaro. La situazione per Tommaso è critica: Antonio cacciato di casa, il padre infartuato e la responsabilità di prendere in mano l’ azienda insieme ad Alba ( Roberta Astuti), una ragazza che custodisce nel cuore il dolore per una vita di solitudine a causa della perdita della madre. Tutti i personaggi di Ozpetek, infatti, fanno i conti con un fantasma, come un male che li divora dall’interno. Ognuno di loro sembra lottare tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere per la società, in nome di una tanto decantata “normalità”, che, grazie alle simpatiche “stranezze” dei personaggi, diventa soltanto “una brutta parola”. Perché “il male” che serpeggia nell’ animo umano non è altro che il nostro desiderio di vivere come desideriamo, senza regole o pregiudizi. Il simbolo di questa “rivoluzione” è proprio la nonna, la mina vagante, interpretata da un’intensa Gianna Coletti, colei che ha portato avanti l’ azienda con il marito e il cognato Nicola, suo unico vero amore. Lei che, per tutta la vita, ha trovato la forza di andare avanti grazie al pensiero costante di un amore impossibile, è l’emblema delle nostre stranezze più intime che diventanto teatro di vita. È ciò che succede anche con gli amici romani di Tommaso, giunti inaspettatamente a Gragnano per fare visita all’ amico. Francesco Maggi, Jacopo Sorbini e Sergio Toscano interpretano, in modo eccellente, i luoghi comuni sugli omosessuali, messi in scena , però, con una formula umoristica che aveva già conquistato il pubblico nel film. A loro si aggiungono la cameriera Teresa (Mimma Lovoi) e la zia di Tommaso, Luciana, interpretata da Sarah Falanga, che, con ironia, riescono a caratterizzare dei personaggi non semplici, ma indispensabili per coronare il quadro ” teatrale” della commedia. Su tutti capeggiano Vincenzo e Stefania (Francesco Pannofino e Loredana Cannata), specchio di una coppia dai valori quasi medioevali che fa da contraltare alle stranezze di tutti gli altri componenti della scena. Da questa dicotomia nasce la comicità, il patto con il pubblico per ridere insieme, abbattendo anche la quarta parete e donando la consapevolezza tipica di Ozpetek di trovarci in uno spazio artistico che è solo un piccolo punto della maestosità della vita. Due ore di spettacolo in cui sembra di entrare a casa Cantone e vivere con loro le gioie e i dolori di una famiglia che nasce al cinema e suggella il suo valore artistico nella scuola di vita del teatro.